Perché non ho denunciato

Perché non ho denunciato

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Oggi, 29 maggio, è il Denim day, la giornata istituita 15 anni fa dall’associazione Peace Over Violence in risposta alla sentenza della Cassazione che in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché questa indossava un paio di jeans. E in questa giornata lanciamo la sfida di pubblicare articoli con lo stesso titolo: “Perché non ho denunciato” e cominciamo facendolo in prima persona sui blog del Fatto, il Manifesto, Repubblica e del Corriere. L’iniziativa è promossa da un gruppo di giornaliste che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a fare proprio il titolo e l’immagine. E invita tutte le altre donne a raccontarsi rispondendo a:  Perché non ho denunciato 27esima ora, Lipperatura, Luisa Betti, Il Manifesto, Il corpo delle donne, il Blog di Nadia Somma, Anarkikka e Genere, gender, genre e non solo

“Era un pomeriggio di estate, metà degli anni Settanta. Erano gli anni del rapimento e uccisione di Milena Sutter, del massacro del Circeo. Avevo sedici o diciassette anni.
Alle sei e mezza stavo camminando in un viale alberato abbastanza centrale, ma isolato, in quanto in quel tratto di strada ci sono solo abitazioni circondate da ampi giardini. La fermata dell’autobus che dovevo prendere per tornare a casa era a poche decine di metri lungo la stessa strada. A un certo punto una macchina grossa, una Mercedes o forse una BMW, è arrivata a tutta velocità da una strada laterale e ha inchiodato a pochi metri da me. C’erano quattro persone a bordo, quattro ragazzi più grandi di me, ma non di molto. Potevano avere circa venticinque anni, avevano i vestiti, il taglio di capelli, l’aspetto di ragazzi “bene”. Uno è rimasto al volante, gli altri tre sono scesi lasciando gli sportelli spalancati e sono corsi verso di me. Due urlavano: “Prendila, prendila, portala in macchina!”. Io sono rimasta pietrificata. Mi sembrava di assistere a un film. Non ho avuto neanche il tempo di gridare o di mettermi a correre, si sono fermati di colpo, sono scoppiati a ridere urlandomi “Scema, ci hai creduto? Che effetto fa?” e sono corsi di nuovo verso la macchina che è ripartita sgommando con gli sportelli ancora aperti.
Dopo qualche minuto ho ripreso a camminare verso la fermata. Mi tremavano così tanto le gambe che facevo fatica a stare in piedi. Pensavo che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto.
Non ho detto niente perché tanto non sapevo il numero di targa, non avrei saputo riconoscere nessuno, pensavo che avrei fatto la figura della stupida a dire che mi ero spaventata così tanto, in fondo non mi avevano fatto niente, o perlomeno così pensavo in quel momento.
In tutti questi anni, ogni tanto mi sono venuti in mente quei quattro ragazzi, ora uomini di circa sessant’anni. Sposati? Con figli? Figlie? Nipotine? Mi chiedo quante volte hanno fatto la stessa cosa, se hanno fatto di peggio, se erano tutti d’accordo allo stesso modo o se almeno uno di loro provava disagio in quel momento o dopo, ripensando a ciò che aveva fatto. Mi domando se hanno mai associato quello che ai loro occhi era una goliardata con la violenza, o se hanno sempre pensato che fosse uno scherzo, di cattivo gusto magari, ma niente di più. Se hanno mai capito che vi è un filo che unisce i vari tipi di violenza, che si tratta di un continuum che va da manifestazioni solo verbali ad aggressioni fisiche, i cui effetti sulle vittime, anch’essi disposti lungo un continuum, sono di natura simile anche se di intensità e peso molto diversi.
La violenza è violenza e passarla sotto silenzio è sempre sbagliato, perché lascia la possibilità di pensare che il silenzio significa che in fondo non è successo niente di particolarmente grave, peggio, che c’era una qualche complicità, una accettazione di quanto successo.”
#DenimDay
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